Per l‘omicidio di Serena Mollicone, la studentessa di Arce (in provincia di Frosinone) uccisa nel 2001 e il cui corpo venne ritrovato nel bosco di Fontecupa nel comune di Fontana Liri, la procura ha chiesto una condanna di 24 anni per l’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce Franco Mottola e 22 anni per la moglie Annamaria e il figlio Marco. Assoluzione, invece, per i due carabinieri Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano, per i quali non ci sarebbero prove sufficienti per arrivare alla condanna. La requisitoria dei Pg Francesco Piantoni e Deborah Landolfi terminerà nell’udienza che si terrà mercoledì a Roma. In primo grado i giudici della Corte d’Assise di Cassino avevano assolto tutti gli imputati. “L’omicidio della 18enne riporta a quello di Marco Vannini”, il giovane che venne ucciso a Ladispoli (in provincia di Roma) da un colpo di pistola a casa della sua fidanzata Martina Ciontoli e sparato dal padre, Antonio Ciontoli, condannato il via definitiva. Il riferimento della pubblica accusa è relativo al cosiddetto, obbligo di “garanzia e di protezione dei titolari dell’abitazione nei confronti di persone da loro ospitate che si trovino in pericolo di vita”. Serena Mollicone, infatti, secondo la ricostruzione dei pg, rimase agonizzante prima di morire, senza che nessuno le prestò soccorso. La sentenza è prevista per il prossimo 12 luglio.
Fonte Serena è un boschetto in provincia di Frosinone a circa otto chilometri dal paesino di Arce, nella Valle del Liri, dove il 3 giugno del 2001 venne ritrovata morta, dopo due giorni di ricerche, la diciottenne Serena Mollicone. Capelli bruni, minuta, un metro e cinquanta di dolcezza e affetto per suo padre Guglielmo, che la tira su da sola, insieme a sua sorella, dopo che una brutta malattia si porta via la moglie. Una vita trascorsa tra la scuola, l’esame di maturità imminente, il negozietto di famiglia, gli amici, i primi fidanzati. Ma anche i primi dolori: ad Arce circola droga, qualche amico muore. Papà Guglielmo, che insegna nella scuola locale, cerca di spronare i ragazzi a tenersene lontani. «Serena era contraria alle droghe e aiutava chi cercava di uscirne», racconterà in seguito Guglielmo Mollicone, «mia figlia è morta per questo». Il primo giugno del 2001 Serena si alza presto per andare in ospedale a fare una radiografia. Ha anche appuntamento con il ragazzo che frequenta da un po’ di tempo. Esce di casa, si perdono le sue tracce. La sera, quando non la vede arrivare, papà Guglielmo lancia l’allarme. Ai carabinieri dice: «Mia figlia avvisava sempre quando faceva tardi». Partono le ricerche. La proprietaria di un bar racconta che quella mattina Serena è entrata nel suo locale insieme ad alcuni ragazzi. Sono andati via su un’auto bianca. Un carrozziere, Carmine Belli, conferma: «L’ho vista davanti a quel bar, litigava con un ragazzo biondo». Per ore di Serena non si trova traccia. Papà Guglielmo consegna il diario della figlia al comandante della stazione dei carabinieri, Franco Mottola, venuto apposta a casa sua per chiederglielo ai fini delle ricerche. Stranamente, la consegna non viene registrata in alcun verbale. Due giorni dopo, però, una notizia terribile fa il giro d’Italia: Serena è stata uccisa, il corpo abbandonato in un boschetto, le mani e i piedi legati da fil di ferro, la testa chiusa in un sacchetto. Attorno a lei, i suoi libri e quaderni di scuola. Ma il cellulare non c’è. I carabinieri vanno a casa Mollicone per cercarlo, controllano dappertutto, aprono tutti i cassetti, ma non lo trovano. L’autopsia stabilisce che non c’è stata violenza sessuale. La ragazza, però, ha ricevuto una botta in testa. Da parte di chi? Papà Guglielmo è distrutto. Teme che sua figlia sia rimasta vittima di alcuni spacciatori di droga. «Voleva andare in caserma per denunciarli», racconta fin da subito. Tutta Arce è devastata. Il 9 giugno viene organizzata una fiaccolata. Partecipa tutto il paese, e anche papà Guglielmo. Il quale, quando torna a casa, apre un cassetto già controllato dai carabinieri e vi trova dentro il cellulare di sua figlia. Qualcuno è entrato in casa per nascondervelo? All’interno della rubrica i carabinieri trovano registrato il numero “666”. È il simbolo di Satana: Serena è rimasta vittima di una setta satanica? «Non ci credo», dice papà Guglielmo. Infatti, le indagini in questa direzione si rivelano solo una perdita di tempo. Intanto viene organizzato il funerale. Durante la cerimonia religiosa, i carabinieri arrivano a sorpresa e portano via il papà di Serena. Il giorno dopo, su tutti i giornali campeggiano i sospetti contro Guglielmo Mollicone. Ma non è stato lui a fare del male a sua figlia: in caserma doveva solo firmare alcune carte. Perché prelevarlo davanti a tutti in quel modo? Perché far concentrare su di lui l’attenzione? Mesi di indagini infruttuose. Poi, nel settembre del 2002, poco più di un anno dopo il delitto, i carabinieri arrestano Carmine Belli, il carrozziere che aveva visto Serena litigare con un ragazzo biondo davanti a un bar. Per gli inquirenti avrebbe ucciso Serena. Lui, però, è convinto di essere solo un capro espiatorio per chiudere la vicenda e che la sua colpa sia stata quella di aver cercato di aiutare le ricerche della ragazza. Infatti, il ragazzo biondo con cui ha affermato di averla vista la mattina in cui è sparita, altri non è che Marco Mottola, il figlio del maresciallo Mottola, un giovane di cui nel paese si vocifera che sia immischiato nello spaccio di droga. «Sono innocente», urla Carmine Belli, che viene dipinto come un mostro e rinchiuso in carcere. Al processo viene assolto. Poi, per anni, il silenzio. Rotto solo dalle richieste di papà Guglielmo perché si faccia luce sul delitto di sua figlia. Tutto inutile. Fino all’11 aprile del 2008, quando un carabiniere della stazione di Arce, Santino Tuzi, viene trovato morto nella sua auto. Secondo i carabinieri, il collega si è ucciso per amore: aveva un’amante. Si sarebbe sparato nella sua auto con la pistola d’ordinanza, che viene trovata sul sedile accanto a lui. Peccato che, qualche tempo prima di morire, Santino Tuzi aveva raccontato in Procura di aver visto Serena Mollicone entrare nella caserma dei carabinieri, per poi non uscirne, proprio il giorno della sua sparizione. «Mia figlia era andata a denunciare il figlio del maresciallo», dice papà Guglielmo, «per me l’hanno uccisa loro. E hanno indotto al suicidio Santino Tuzi, che finalmente si era deciso a parlare». Le indagini si concentrano sui carabinieri. E si scopre che Serena sarebbe stata uccisa davvero nella caserma, in seguito a un litigio. In seguito, sarebbero stati messi in atto una serie di depistaggi per impedire che il fatto venisse scoperto. A processo finiscono, con l’accusa di omicidio volontario e occultamento di cadavere, l’ex maresciallo Franco Mottola, sua moglie e suo figlio Marco. Oltre a due carabinieri accusati uno di favoreggiamento e l’altro di induzione al suicidio di Tuzi. Secondo l’accusa, dopo aver litigato per strada con Marco Mottola (come raccontato dal carrozziere Carmine Belli), Serena avrebbe dimenticato i suoi libri nell’auto del ragazzo. Quindi, si sarebbe recata in caserma, nell’appartamento dei Mottola, per recuperarli. Qui, durante un litigio, sarebbe stata spinta da Marco Mottola e avrebbe battuto con violenza la testa contro una porta. Un colpo fortissimo, tanto da lasciare segni sulla porta, poi sequestrata. Serena, però, non sarebbe morta subito. Se soccorsa, avrebbe potuto essere salvata. Invece, sempre per l’accusa, sarebbe stata lasciata morire dopo cinque ore di agonia. Il tutto mentre Marco Mottola andava in giro per il paese in modo da crearsi un alibi, e suo padre procurava il nastro e i materiali con cui la ragazza sarebbe stata legata e abbandonata nel bosco. In seguito, sempre secondo l’accusa, il maresciallo avrebbe messo in piedi, con l’aiuto di due colleghi, una serie di depistaggi per sviare le indagini e salvare suo figlio. Depistaggi iniziati fin da subito: il diario della ragazza chiesto a papà Guglielmo con la scusa di dover cercare la ragazza. Il corpo di Serena fatto ritrovare in un boschetto lontano dal bar dove era stata vista litigare col figlio del maresciallo, un luogo che sarebbe stato scelto apposta per evitare un’associazione tra i due episodi. Il cellulare della ragazza fatto sparire e poi nascosto in casa approfittando dell’assenza di suo padre: sopra, stranamente, non c’erano impronte. Il numero “666” registrato nella rubrica del telefonino per deviare l’inchiesta verso le sette sataniche. Il tentativo di far cadere i sospetti sullo stesso papà della ragazza. L’arresto di Carmine Belli, che da testimone di un litigio si è ritrovato imputato per omicidio. Infine, i tentativi di convincere il carabiniere Santino Tuzi a ritrattare la sua deposizione ai pm e quelli di far passare la sua morte come un suicidio per amore. «Siamo innocenti», urlano i Mottola. Al processo, i loro difensori hanno tentato di smontare le accuse una per una. «Sul luogo del delitto è stato trovato del dna che non appartiene agli imputati, e il loro non c’è», dice il criminologo Carmelo Lavorino, che fa parte del pool della difesa, «la porta contro la quale, per l’accusa, Serena sarebbe stata sbattuta non può essere l’arma del delitto, in quanto l’urto non è compatibile né con l’altezza della ragazza e né con la ferita». Ma per tutti i colpevoli sono loro. Peccato che al processo non si sia più papà Guglielmo: è morto nel maggio del 2020, dopo aver dedicato vent’anni della sua vita a tentare di far avere giustizia a sua figlia.