Il disegno di legge governativo per l’Autonomia differenziata, in tema rapporto Stato-Regioni, cosiddetto Ddl Calderoli dal nome del proponente leghista Roberto Calderoli, è stato approvato il 23 gennaio dal Senato con i voti dei partiti di maggioranza, nonostante l’opposizione di Pd, M5S e IV. Passata al Senato, attende la seconda lettura alla Camera. Si tratta di una legge che definisce le procedure per attuare il terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, dove prevede la possibilità di attribuire «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» alle Regioni a statuto ordinario che ne facciano richiesta. Siamo nell’ambito di una riforma che tanto ha fatto discutere negli anni per le potenziali sovrapposizioni di potestà legislativa tra Stato e Regioni.
Le materie interessate sono «rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale». Il fatto che una Regione possa chiedere maggiore autonomia su così tante materie ha suscitato la preoccupazione che il meccanismo possa frammentare lo Stato arrivando ad amplificare già presenti differenze nei servizi. Vero è che il Decreto stabilisce che «l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con riguardo a materie o ambiti di materie riferibili ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, è consentita subordinatamente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni previsti dalla Costituzione (Lep) e riguardanti tutte le Regioni del Paese». In particolare si prevede una fissazione di Lep – ci saranno due anni di tempo attraverso decreti attuativi – in materia di istruzione, ambiente, sicurezza sul lavoro, ricerca scientifica e tecnologica, salute, alimentazione, ordinamento sportivo, governo del territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione, comunicazione, energia, e beni culturali.
Resta, tra le altre cose, aperto il nodo del finanziamento dell’autonomia differenziata, che secondo il Ddl dovrebbe avvenire senza ulteriori aggravi per la finanza pubblica: diversi analisti vi vedono rischi di sostenibilità economica a livello nazionale e di diseguaglianza tra i territori, nonché il pericolo che possa prodursi un aggravio della burocrazia. «Il trasferimento delle nuove funzioni alle Regioni ad autonomia differenziata (Rad) comporta la devoluzione di una quota di gettito erariale potenzialmente significativa e, contestualmente, la perdita di controllo da parte del governo centrale di settori rilevanti della spesa pubblica». Tra i principi enunciati nel Ddl vi è quello dell’iniziale bilanciamento tra entrate e spese trasferite, in modo da rendere neutrale almeno nell’immediato l’impatto del riassetto delle competenze sui saldi di finanza pubblica. Il rischio che da tale processo possano derivare maggiori oneri per il bilancio pubblico, tuttavia, non può essere trascurato. La spesa complessiva potrebbe risentire della frammentazione nell’erogazione dei servizi pubblici, oltre che di maggiori costi dovuti a diseconomie di scala.
Chi sostiene la riforma ritiene che dovrebbe garantire una migliore aderenza tra servizi ed esigenze specifiche dei territori, anche perché si presume che un criterio di “vicinanza” responsabilizzi maggiormente in termini di ricadute sul consenso i decisori locali, chi la critica teme invece che la riforma nasconda il pericolo di disgregare il Paese, esacerbando e istituzionalizzando di fatto le differenze economiche, politiche, sociali, che già ci sono tra una regione e l’altra. Il tema della salute, che già rappresenta una delle voci più significative nei bilanci regionali, è quello che più suscita dibattito. Durante l’emergenza Covid si era posto il problema della difficoltà di fronteggiare un’emergenza globale con un sistema sanitario già largamente affidato alle autonomie regionali, e di fatto a più velocità, ora la preoccupazione di molti è che un’autonomia rafforzata possa ulteriormente consolidare le differenze tra Regioni più facoltose e meno, anche in termini di diversa possibilità di accesso ai servizi da parte di cittadini di regioni diverse, il timore che l’autonomia differenziata si traduca in un aumento delle diseguaglianze è il tema politicamente più sensibile. Gimbe, Fondazione indipendente che analizza i dati della sanità, paventa il rischio che l’autonomia differenziata si traduca nella «legittimazione normativa della “frattura strutturale” Nord-Sud, che compromette l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla tutela della salute, aumenta la dipendenza delle Regioni meridionali dalla sanità del Nord e assesta il colpo di grazia al Servizio Sanitario Nazionale». Tanto che aveva chiesto prima del voto al Senato di espungere la salute dalle materie su cui si possa chiedere un aumento dell’autonomia, richiesta che non ha trovato accoglienza.